Un Solennissimo Strombettio

Un Solennissimo Strombettio

Rete Toscana Classica

“Per quanto diversi tra loro sieno i drammi che voi prendete a mettere sotto le note, tutte le sinfonie che a quelli servono d’apertura sono sempre battute al conio medesimo: non falla mai ch’esse non sieno un solennissimo strombettio, composto d’un allegro, d’un largo e d’un balletto. Pure, se i nostri compositori avessero consultate le leggi del buon gusto, appreso avrebbero in quel codice prezioso che la sinfonia aver dee connessione col dramma, e segnatamente colla prima scena”.
Queste parole si leggono nel trattato Dell’opera in musica, scritto dal cavalier Antonio Planelli dell’ordine gerosolimitano e pubblicato a Napoli nel 1772.

Quella di introdurre uno spettacolo teatrale (non solo operistico) con della musica strumentale è un’usanza antica: la Toccata che il 24 febbraio 1607 precedette, a Mantova, la rappresentazione dell’Orfeo di Claudio Monteverdi è il primo “solennissimo strombettio” della storia dell’opera di cui si abbia notizia certa. Da quel momento, preparare il pubblico dell’opera con un brano strumentale diviene un’abitudine di cui non si sa fare a meno: per il solo fatto di ascoltare della bella musica, che li invita alla concentrazione e li esorta all’oblio del mondo quotidiano, gli spettatori si predispongono così ad assistere all’incanto che si paleserà loro all’alzarsi del sipario. La Francia di Luigi XIV e Jean-Baptiste Lully farà delle proprie “ouverture” un vessillo, e un modello in grado di conquistare il mondo. Napoli, divenuta il centro d’irradiazione di tutta l’opera italiana, risponderà con un proprio modello, altrettanto forte.

Con il Settecento, e in particolare con il pensiero illuminista, si manifesta un nuovo sentire. Non basta più che l’ouverture (o, in Italia, ‘sinfonia avanti l’opera’) apra lo spazio di una generica irrealtà: si vuole che essa susciti negli spettatori un sentimento coerente con le caratteristiche dello spettacolo che si va a rappresentare; si vuole, insomma, che dello spettacolo essa sia parte integrante, che ne condivida i tratti emotivi. Con il secolo successivo, e con l’affermarsi della temperie romantica, questa prospettiva si rafforza, anche se non mancano le eccezioni: prima fra tutte, quella costituita da Gioacchino Rossini, che solo raramente si piegherà all’idea di un’ouverture “programmatica”. Raggiunto infine il culmine nel secondo Ottocento, con le vette assolute della Forza del destino di Verdi e dei wagneriani Maestri cantori, l’ouverture d’opera esplode e si annienta, lasciando spazio a soluzioni alternative, che già esistevano, ma che ora sono pressoché esclusive: il preludio, gli intermezzi, la breve introduzione. Quando, nel Novecento, l’ouverture si riaffaccia, è ormai il vagheggiamento d’un mondo che non c’è più.
a cura di Marco Mangani,

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